Perché si viaggia

di Maria Luisa Alvino

naufraghisenzavolto

Malta , Il Gzira. Veduta al mattino verso La Valletta.

Recentemente ho potuto godere di un bel fine settimana a Malta.

Si viaggia per rilassarsi e per conoscere: nuovi profili di antiche città, modi di vivere che sono frutto di mescolanze di usi e tradizioni diverse, lingue che mettono insieme parole intrecciate tra loro dal tempo. Ho potuto visitare in barca la grotta azzurra di Malta (perché anche qui a Malta, grazie a Dio, c’è una grotta azzurra come in Campania e in Sicilia, per esempio). Il mare era di un azzurro intenso, esaltato dalla luce del sole; tutti indossavano il giubbotto di salvataggio, tranne io perché quello rimasto era fradicio … Ma non importava perché  – pur sapendo quanto sia fondamentale il giubbotto – io mi sentivo tranquilla, ero con mio marito e, nel peggiore dei casi, pensavo di appoggiarmi alla barca.

Eppure non ho potuto fare a meno di sentire che quello stesso mare custodisce i corpi preziosi di tanti fratelli e sorelle, anche piccolissimi. Che lì sotto giacciono delle persone. Che queste persone hanno intrapreso un viaggio sperando, magari dopo aver festeggiato una laurea, un matrimonio, una nascita. Che hanno affrontato ostacoli, fatto tappe, corso rischi, attraversato un deserto. Che hanno raggiunto la Libia.

E forse non tutti sapevano a cosa andavano incontro e cosa sarebbe accaduto.

Sto leggendo un libro di Cristina Cattaneo, “Naufraghi senza volto”: l’autrice è professoressa ordinaria di Medicina Legale presso l’Università degli Studi di Milano e direttrice del LABANOF (Laboratorio di Antropologia e Odontoiatria Forense). Attualmente è coinvolta nell’identificazione dei migranti morti in mare, in particolare nei naufragi di Lampedusa del 3 e 11 ottobre 2013 e 18 aprile 2015.

Leggere il libro mi sta facendo conoscere l’enorme lavoro che c’è stato prima, durante e dopo la costruzione del percorso interno all’Ufficio del Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, con l’obiettivo di riconoscere le vittime – almeno quelle i cui corpi sono stati recuperati o restituiti dal mare – dei naufragi a partire da quelli del 2013.

Quanta professionalità, quanta precisione e quanta attenzione; che umanità e quale sensibile discrezione nell’accostarsi ai familiari delle vittime, convocati per il possibile riconoscimento … Sì, perché non è vero che nessuno più cerca questi “scomparsi”. Non è vero che i parenti si sono arresi, che hanno smesso di sperare: sperare anche di sapere che i loro cari – madri, padri, figli, nipoti, mariti, mogli – sono morti, pur di avere una certezza, un volto su cui piangere, un corpo da seppellire con rispetto, un documento di morte per poter adottare un nipote divenuto orfano. Qualunque cosa al posto del dubbio.

Non hanno perso la speranza pur avendo ricevuto molte porte chiuse, o sbattute, in faccia.

E questi medici si occupano di ricomporre nuclei familiari, di dare una risposta a chi la cerca da anni, anche quando questa è molto dolorosa.

Il riconoscimento avviene col DNA, col viso quando è ancora ben conservato, ma a volte avviene con un’impronta, dentale o digitale, lasciata su un oggetto personale conservato dai parenti. A volte con una cicatrice, un neo, un ciondolo. Tutto refertato, schedato e catalogato.

Il Mediterraneo nasconde nel suo silenzio ancora tanti corpi che forse non saranno mai recuperati; non riceveranno lo stesso trattamento delle vittime dei terribili incidenti “nostrani”.

Si viaggia per conoscere, si viaggia per ricordare, si viaggia anche per chiedere scusa e per pregare.

Maria Luisa Alvino

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