Puteoli è stata il porto di Roma. Il litorale laziale non offriva golfi in cui riparare le navi. Perciò Puteoli è stata il porto di Roma.
Le merci arrivavano da tutto l’Impero e da oltre i confini dell’Impero, come perfino dall’Asia. San Paolo nel suo viaggio verso Roma passò per Pozzuoli. Tra Miseno, Bacoli e il lago di Averno vi erano i porti militari di Roma.
Attraverso questi porti arrivavano i copiosi bottini di guerra che hanno fatto ricca Roma nella storia. Solo dopo alcuni secoli, i Romani furono in grado di realizzare un porto ad Ostia che sostituisse la funzione di Puteoli.
Baia era considerata la Montecarlo di epoca romana. Politici e uomini illustri vi tenevano ville splendide. Godevano del mare, del panorama e delle acque termali terapeutiche.
I Campi Flegrei sono ambitissimi da più di due millenni. Sono stati considerati un Paradiso. Con un rischio modesto legato al lento movimento del suolo. E sono ambiti anche in epoca contemporanea.
Cento anni fa sul ciglio del vulcano Solfatara fu stabilita l’Accademia Aeronautica Italiana in cui si formano i piloti di tutto il nostro paese. Sul sito dell’Accademia campeggiano favolose descrizioni paesaggistiche e si legge dei “fenomeni vulcanici secondari”.
Ma non solo militari italiani.
Il comando marittimo della NATO del Sud Europa fu ubicato tre chilometri più in là sull’isolotto vulcanico di Nisida. Un isolotto mediterraneo di rara bellezza è stato interdetto per decenni ai cittadini napoletani ed italiani perché “ceduto” alle forze alleate che si occupano della sicurezza di tutto il mediterraneo.
Ad uso esclusivo dei militari americani è stato devoluto il Gauro, uno dei crateri più grandi dei Campi Flegrei, sul cui fondo sono stati realizzati estesi campi sportivi di cui i cittadini italiani non possono godere.
Dunque la sovranità delle aree vulcaniche considerate più desiderabili è stata ceduta ai corpi militari.
Nei Campi Flegrei a partire dai primi anni del ‘900 è stata impiantata anche l’industria pesante a rischio di incidente rilevante. Le acciaierie Italsider di Bagnoli avevano un’estensione di due chilometri quadrati, sono state sviluppate sotto tutti i governi nazionali del secolo scorso, senza che questa scelta sia stata mai messa in discussione per ragioni legate al bradisismo. Semmai per ragioni ambientali. Il distretto siderurgico a Bagnoli ha avuto infatti l’apice negli anni ’60-’70, per essere poi dismesso nel ’92 per la successiva contrazione del settore, lasciando un gigantesco problema di bonifica in un’area che sarebbe stata a forte vocazione turistica.
Da qualche settimana, da quando la crisi bradisismica si è acuita, è partita la campagna mediatica che “tradizionalmente” si attiva quando una calamità naturale colpisce il meridione d’Italia. Sembra improvvisamente che i cittadini da millenni sapessero di vivere su un’area a forte rischio e abbiano colpevolmente ignorato il rischio contro ogni evidenza.
Si dimentica che le conoscenze scientifiche sui Campi Flegrei si sono evolute negli ultimi decenni. E che, pur essendo ridotti i rischi di eruzione, correttamente la scienza sta considerando in questo momento tutte le evenienze.
Le grandi eruzioni sono terminate 4.000 anni fa. E in epoca storica non vi è stata cognizione di queste eruzioni. Almeno fino al 1538 quando vi fu la modesta eruzione di Monte Nuovo che interessò un raggio limitato. Per spiegarla con parole riduttive ma semplici, quella del 1538 è considerata una risalita di una piccola “bolla” di magma che era residuata dopo l’epoca delle grandi eruzioni e non una riattivazione della camera magmatica profonda. I Campi Flegrei nei prossimi millenni andranno probabilmente verso lo spegnimento definitivo a cui sono arrivati altri vulcani toscani, laziali e campani: “Amiata”, “Bolsena”, “Vico”, “Bracciano”. “Roccamonfina” . I “Castelli Romani” invece non sono ancora spenti. Sui “Castelli” vi sono ville tra le più esclusive dei dintorni di Roma, nonché il Palazzo Papale di Castel Gandolfo, ma non è escluso che in futuro quell’area vulcanica possa riattivarsi.
L’area dei Campi Flegrei è fittamente monitorata e al momento gli esperti dichiarano che non vi sono evidenze di risalite di magma.
Certo con la natura c’è sempre un tratto di imponderabilità, ma il rischio maggiore in questo momento non sembra collegato ad una eventuale eruzione ma ai fenomeni sismici che – in quanto superficiali – possono produrre più danni di quanto di potrebbe desumere da una acritica lettura del valore della magnitudo.
Il rischio sismico interessa tutte le aree appenniniche italiane, dalla Liguria alla Calabria, e interessa anche la Sicilia e il Friuli. In Emilia Romagna, fino al terremoto del 2012, si era dimenticato il rischio sismico , sebbene nel 1570 sotto gli Estensi vi fosse stata una precedente fase sismica. Fase sismica ferrarese contemporanea all’eruzione di Monte Nuovo e poi “ignorata” e “obliata” allo stesso modo.
Il rischio alluvionale interessa la maggioranza dei territori della Romagna. Le aree sismiche e alluvionali italiane, come la Romagna, sono state interessate da una intensa cementificazione dal dopoguerra ad oggi e il fenomeno non si è arrestato negli ultimi anni. Anche la Giunta Bonaccini in Romagna ha dato ulteriore impulso all’utilizzo di aree alluvionali, con il risultato del disastro alluvionale del 2023.
Questo perché il disinteresse e l’ignoranza verso i temi del rischio e dell’ambiente sono una questione grave a livello nazionale e mondiale. Ma quando la calamità colpisce il Sud Italia si dimentica che il problema sia globale e immediatamente dopo parte la svalutazione antropologica. Che rialimenta e riconferma ogni volta se stessa, dopo ogni fenomeno naturale critico.
Questo meccanismo mediatico perverso, nel caso del terremoto di Ischia del 2017, ha avuto l’effetto di far venire meno la pietà e il sostegno economico alle popolazioni colpite. Ciò che danneggia un edificio durante un terremoto non è la magnitudo ma l’accelerazione del suolo. Il terremoto di Ischia ebbe una magnitudo contenuta (4.3) ma l’accelerazione del suolo fu pari a quella di un forte terremoto appenninico (6.0). Tuttavia i media non imputarono i danni all’accelerazione del suolo ma, erroneamente, alle modalità di edificazione adottate dagli isolani. Sarebbe bastato invece osservare che anche edifici di buona fattura avevano subìto danni importanti, come fece l’ordine degli ingegneri di Napoli.
Guido Caridei, ingegnere per l’ambiente e il territorio.